brevi recensioni - cinema

“A Ciambra” (2017), di Jonas Carpignano

A Ciambra

A Ciambra è una comunità di rom di Gioa Tauro, in Calabria.
Qui vive la numerosissima famiglia Amato.
Pio è un ragazzino sveglio, coraggioso che vive tra piccoli furti, sigarette, qualche bicchiere di vino.
Ma soprattutto, è legato al fratello maggiore Cosimo che finisce in galera dopo una rapina andata male.
E’ questa l’occasione per Pio di mostrare a sé stesso, in secondo luogo alla famiglia, quanto il suo coraggio e il suo modo di vedere e affrontare il mondo siano abbastanza resistenti per definire il suo viaggio verso “l’essere uomo e adulto”.

Jonas Carpignano, italo-americano, alla sua seconda opera filma quello che in sostanza è un romanzo di formazione.
Dietro una produzione gigantesca – Francia, Germania, Stati Uniti, Italia, Brasile, Svezia – e vari produttori tra cui Scorsese, Carpignano dirige un film strepitoso, la narrazione non si perde mai.
Dietro al taglio documentaristico, non c’è nulla di improvvisato, è tutto scritto.
Con una tecnica audace e precisa, in biblico tra il documentario e il film di finzione, “registra” la vita degli ultimi, degli emarginati per sempre, i rom, gli zingari, annidati nella “Camera” – Ciambra è questo che significa, probabilmente di derivazione francese, che indica un capanna fatta con mezzi improvvisati, presi dalla vegetazione, un ambiente quindi spartano-
E di un ragazzino che per molti aspetti è già adulto.
Pio è solo in parte un piccolo adolescente che ruba macchine e si intrufola nelle case di italiani poco raccomandati.
Pio rende “frammentato” quello che dovrebbe essere un romanzo di formazione perché, nonostante l’età, sa già come e cosa sentire del mondo, il suo coraggio può solo crescere – o sparire de tutto -, è intelligente e avventato, astuto e il suo trattare tutti allo stesso modo gli rende due occhi più grandi di quelli che appaiono solamente nella camera da presa.
Per questo ha amici nella comunità africana della Ciambra, vive e convive senza pregiudizi alcuni tra i suoi componenti burkinabè e ghanesi.

Pio ha già la forza di combattere per la vita, che è una sopravvivenza nella sfocata Ciambra, tra casermoni abbandonati e senza servizi.
Non brucia le tappe, bensì vuole confermarle: lo fa portando a casa i soldi dei furti a una madre severa, si sostituisce al fratello che chiama “Marocchini” tutti gli africani della comunità – in realtà, tutti i rom li chiamano così, a parte il piccolo Pio -, abbraccia il suo amico africano Ayiva mentre lo riaccompagna a casa, ride alla festa dei ghanesi che si ritrovano per vedere la nazionale di calcio.
Il suo cammino per essere uomo è bagnato tutto da un senso di empatia che Pio ha già nelle sue vene; ma ha anche bisogno d’amore, forse la cosa che gli manca davvero e lo fa cercando un abbraccio, mal ricambiato, della madre di mattina appena sveglio.
L’amore che gli manca è l’unica cosa che può veramente spaventarlo, è l’unica cosa che lo rende veramente inquieto.
Anche quando sarà costretto a tradire il suo amico Ayiva, dopo numerosi no ripetuti al fratello che intanto è uscito di prigione e ha già escogitato un furto, Pio farà quello che lo spirito del suuo essere uomo gli richiede.

A Ciambra è un film bellissimo e anche dolcissimo, spigoloso nella ripresa e nell’uso del linguaggio della comunità calabrese; sfiora il capolavoro, con un protagonista che nel suo essere eroe – a modo suo, lo è già – buca lo schermo.

Qualcuno che descrive A Ciambra come un film razzista e totalmente inutile, probabilmente, ha guardato un’altra storia, addormentandosi e non rendendosi conto dell’errore di pellicola.
Forse uno in particolare, che afferma:
“Dopo i migranti di Fuocoammare (il documentario di Gianfranco Rosi)  i rom, possibile che “il grande cinema italiano” non abbia di meglio di offrire?”

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