Dis
Un ex soldato si rifugia in un bosco, probabilmente a causa di un passato funesto.
Nella selva, una figura demoniaca lo osserva, mentre caccia le sue vittime per nutrire il suo orto di mandragora.
Non esiste una trama precisa e lineare di questo Dis (2018), diretto da un Adrian Corona in una forma artistica strepitosa – per essere la sua opera a lungometraggio d’esordio.
Sì perché di Adrian Corona si conoscono alcuni cortometraggi e brevissimi girati, praticamente introvabili e non in distribuzione.
Dis è un film tetro, cupo, senza speranza.
Ci sono piccoli e grandi “richiami” che si innescano come metafore per dare corpo a questo film surreale e tremendo.
Piccoli e grandi “richiami” a Dante Alighieri, a cominciare dal titolo.
Dis in latino non è che la città di Dite, situata nel sesto cerchio dell’Inferno, dove soffrono i peccatori di eresia, di violenza contro gli altri e le proprie cose.
Il protagonista, Ariel – Bill Obster Jr. – è un uomo tranciato dal passato da peccatore – in uno dei tanti flashback che compongono il film si intravede la sua violenza sulla donna amata e malata da tempo.
Ci sono inoltre i “richiami” alla magia per mezzo dell’erba mandragora alla quale venivano attribuiti effetti divini, afrodisiaci.
Dis vive di un montaggio a flash-back e ritorni al presente, i primi in un bianco e nero spiazzante, i secondi a completare il “cammino” di Ariel in un mondo che è l’inferno.
L’inferno guidato dalla creatura mostruosa capace di infliggere crudeltà indicibili, l’inferno trasfigurato e rigettato all’esterno che è dentro al protagonista.
Adrian Corona dirige un film visivamente sorprendente, luci cupe, rossastre, verdi e grigi sporchi, figure inquitanti.
La via cinematografica può ricondurre alle opere di Jodorosky, o meglio alle grandi capacità visive di Jodorosky.
Tuttavia, Dis gioca una parte personale e massiccia nel mondo dell’horror estremo indipendente fino ad ammettere allo spettatore stesso la voglia di una seconda opera di Corona, di conoscerlo ancora meglio.
Dis è un film tetro, cupo, senza speranza.
Ma da vedere.
Visivamente folgorante, fotografato in modo incredibile, allucinato, con immagini crude di violenza dalle quali non subito si è colpiti.
Perché ha la forza dell’incubo puro – rafforzato dalla quasi totale mancanza di dialoghi – e quindi la forza macinante del subconscio più nero.
un incubo popolato da erbe magiche, figure con maschere bondage, la disperazione del protagonista.
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