Naftalina
Il film Naftalina è un ritratto sporco, massacrato e massacrante di una famiglia.
Una famiglia che vive a metà strada tra l’inferno e un ipotetico – neoconio – superinferno.
Tre figli dalla mente completamente disturbata vivono le loro follie insieme a una madre dispotica e altrettanto folle.
Il paradiso è spazzato lontano insieme alle poche macerie del purgatorio.
Resta un inferno colorato di un marrone di vecchi mobili e un verde di carta da parati degli anni ’60.
Il film di Ricky Caruso non si complica la vita.
Non c’è tempo per le istanze freudiane, per le definizioni di autismo di Breuler, nemmeno per l’inconscio di Schopenhauer.
I personaggi sono già allo stadio finale della più profonda follia.
Il figlio vestito con abiti di bambina soggiogato da un autismo feroce e da atti di autoerotismo; il fratello, che è un serial killer, uccide per assopire in modo momentaneo la folle realtà della casa in cui vive; la sorella è rinchiusa in una cantina, ha un potente ritardo mentale, non ha altri incubi se non vivere tra il proprio sangue e le proprie feci; il padre, sempre seduto su una sedia, senza volto umano ma mascherato con una corteccia d’albero putrida.


La prima opera di Ricky Caruso è completamente indipendente, il frutto di un badget praticamente inesistente e di un lavoro d’insieme con attori non professionisti e team tecnico che viene dall Accademia delle Belle Arti di Catania e dalla scena underground catanese.
Caruso mostra le nefandezze di un nucleo familiare portando allo shock lo spettatore, con un placcaggio forte già all’inizio della pellicola.
In Naftalina, non c’è nessun accompagnamento per mano ma solo un gettare agli occhi situazioni già saturate, azioni e psicologie già attorcigliate alla sfera della follia completa.
Il mezzo che permette tutto questo è l’uso della tecnica registica di Caruso.
Un montaggio reso al minimo perché ha la prevalenza il piano sequenza, dall’alto o dal basso.
E’ così che il regista rende tutto stabile e necessario da vedere, non può nascondere nulla e creare allusioni o metafore.
Il risultato è una narrazione dalle tinte surreali, sognanti e feconde di incubi.
L’appartamento vecchio stile diventa quindi la pancia, o meglio, l’intestino dove sono rinchiusi i personaggi.
La parte calante è, a mio avviso, la recitazione – perché non basta emettere gemiti o malmenarsi qualche arto del corpo per rappresentare delle menti folli; ancora di più, tremare continuamente e rantolare inginocchiati vestiti da bambole.
Tuttavia, la prova degli attori è una parte cospicua dei pochissimi mezzi a disposizione quindi diventa utile alla messa in scena del film.
Con Naftalina, Ricky Caruso esprime con talento un’allucinazione, l’effetto visivo è molto potente e qualche piccolo richiamo ai cent’anni di vita del cinema è necessario – le scene del pranzo rimandano a Pasolini, la poltiglia verde che mangiano una brevissima citazione ai vomiti Friedkiniani.
Tra le immagini, sempre degradanti e spinte all’estremo, il senso di chiuso che, attraverso l’ottimo gioco di luci, pare di poter far sentire anche gli odori della casa e dei corpi degli stessi personaggi, Caruso va a toccare anche il senso dell’olfatto, sempre abbastanza lontano dal cinema, che conferma la sua qualità di narratore.