Taxidermia è diviso in tre episodi in cui si narra della famiglia Balatony.
Presentato nella sezione Un Certain Regard del 59º Festival di Cannes.
Il primo, durante la seconda guerra mondiale, vede come protagonista Vendel Morosgovanj, un soldato semplice che durante le sue giornate mette in atto le sue devianze sessuali, la sua attrazione per il fuoco di una candela, la sua masturbazione compulsiva, le sue allucinazioni.
Il secondo, ambientato nell’ Ungheria degli anni ’50 e vede come protagonista il figlio di Vendel, Kalman.
Lui è un campione olimpico di abbuffate di cibo, gare olimpioniche in cui chi trangugia più cibo e ingrassa in tempo reale vince.
Il terzo, vediamo il figlio di Kalman, Lajoska.
Ambientato nei giorni nostri, egli è un imbalsamatore che tiene prigioniero il padre divenuto obeso in modo disumano.
Tenterà di impagliare il padre.
Tenterà di impagliare se stesso, anche.
Taxidermia è un film estremo ed estremamente grottesco.
Grottesco fino alla nausea, funziona come processo di sinestesia:sentiamo l’odore putrido di quasi ogni cosa attraverso gli occhi.
Un film sulla nausea di vivere solo di istinti primari.
Se il grottesco esistenziale di Roy Andersson tocca momenti di poesia, il grottesco di Palfi è un grottesco animale, infila le mani nelle cose più disgustose che si possano immaginare.
Palfi divide il film in tre parti, probabilmente una più scioccante dell’altra.
Ma lo shock è attivato solo nella sua parte “esterna”, non scava nel profondo e non lì si va ad annidare.
Quindi ne rimane l’involucro dello shock, la “pelle” appunto, un oggetto imbalsamato che procura disgusto.
La divisione in “tre parti” strizza l’occhio ai gironi di Pasolini – tre, escludendo per un attimo l’Antinferno.
Ne resta quindi una citazione.
Ma le tonnellate di vomito durante le abbuffate olimpioniche sembrano robe da ragazzini in confronto allo shock puro e unico di Salò.
Taxidermia ha una terza parte più “dura” da vedere.
Ambientato nei giorni presenti, descrive appunto un presente vuoto, costruito su infami ricordi che sono imbalsamazioni, una vita apparentemente normale ma fatta solo di pelle, di materiale esterno.
Palfi porta all’estremo il grottesco, appunto.
Resta inoltre “dentro i suoi limiti”, resta sincero verso lo spettatore sin dall’inizio.
Un modo per non farsi prendere la mano e calcare – ancora di più – sulla oscenità dello shock procurato.
Palfi dice esattamente quello che deve dire nel modo in cui lo dice, niente di più.
Niente esercizio di stile, quindi.
Perchè ben fatte sono le scenografie – specialmente quelle del periodo anni 50 ungherese – e la luce è sempre ricercata, una luce debole, appannata.
Non scomoda più di tanto le riflessioni politiche, tuttavia dà riferimenti della Storia attraverso le “Tecniche di vomito inventate da Kalman”, come fossero specifici esercizi di stretching dopo una faticosissima gara – La Rivoluzione ungherese è nell’aria, nel “secondo capitolo” di taxidermia.
Forse c’è un riferimento pungente tramite lo spreco di cibo per tremende velleità sportive-olimpioniche: il consumismo che si fa largo nella Ungheria dopo la Rivoluzione di stampo antisovietico.
Nonostante tutto, il “risultato” del film non si ottiene “scomodando” fatti storici-politici.
Le citazioni sono molte ma inserite e personalizzate nella vicenda – le abbuffate di Ferreri, il ciccione che esplode mangiando dei Monty Python su tutte.
La storia di Taxidermia è un apologo, le tre istanze descritte hanno lacune ma possono essere sintetizzate dall’immaginazione dello spettatore.