“The Addiction”
Anni ’90,
gli eroinomani di New York,
i vampiri di New York
The Addiction è una storia di vampiri a New York.
Katy è una studentessa di filosofia che viene aggredita, una sera al rientro a casa, da una sconosciuta.
Trascorrono alcuni giorni, il cambiamento in lei si sta attuando.
Nella sua trasformazione, incontra Paine che si rivelerà essere un vampiro da quasi quarant’anni e di avere elaborato delle strategie nel tempo per sfuggire dalla propria “addiction”.
Con la sua prima astinenza, Katy prova a comprendere quello che Paine ha imparato in lunghissimo tempo ma non riuscirà a scampare alla tossicomania.

In circa 82 minuti di pellicola, Abel Ferrara “prende in prestito” le figure vampiresche per girare un film anomalo, insolito, con momenti che arrivano all’horror e altri momenti dai toni realistici oltre che anche onirici.
Il tutto girato in bianco e nero e con formato 4:3.
Si può sentire la voce off di Katy “La nostra droga è il male che risiede in ognuno di noi”.
Ancora “La propensione al male viene dalla debolezza e mostruosità che sono dentro ognuno di noi”.
The Addiction è un compendio di riflessioni, citazioni e valutazioni filosofiche.
La sua protagonista che diventerà vampira, tossicomane del sangue degli altri è un essere cupo, notturno.
Parla di Sartre, di Heidegger, di Husserl, di Feuerbach.
Più volte Katy riflette sulle parole di questi pensatori e ne vede un “vestito” adatto per lei e la sua tossicomania.
La mostruosità e l’inclinazione al male da parte dell’essere umano: di questo Ferrara approfondisce gli aspetti con il suo “The Addiction”.
La radicalità della presenza del male coinvolge tutti.
La propensione al male ristagna nell’uomo.
A ogni persona morsa sul collo corrisponde una nuova persona che, a sua volta, morderà sul collo.
Senza staccarsi né dalla vicenda né dal messaggio da portare, Ferrara mette in primo piano anche la figura del tossicomane.
Egli arriva a trasferire il suo male dall’esterno, con gesti maligni fino a incastrarlo dentro di sé.
Il tossicomane di Ferrara ha bisogno dell’altro perchè anch’egli di sangue deve nutrirsi, di azioni infauste.
Metafora quindi del nutrirsi dell’altro che Paine denuncia come “Tu sei il mio sostentamento e io farò qualcosa di buono per quello che mi hai dato”.

The Addiction va oltre la caratterizzazione del tossicomane abbandonato al suo binomia esistenziale”: io e la sostanza.
Ferrara “sposta l’attenzione” su chi ha contratto una dipendenza in quanto “io e gli altri”.
In questo thriller, si arriva a un messaggio sia di qualita sia di quantità rispetto al male che l’uomo si porta dentro.
Da dietro questo “malleabile muro interiore” filtra quella che si potrebbe dire “una tossicodipendenza verso gli altri umani, resa necessaria quando la consapevolezza di possedere il male si attiva.
Su questo terreno prendono più forma le citazioni di Sartre, per esempio “L’inferno sono gli altri” che in questo caso Ferrara potrebbe reinterpretare nel modo “L’inferno sono io e gli altri”.
Con The Addiction, Abel Ferrara cerca uno spaccato quotidiano degli anni ’90 negli Stati Uniti.
Periodo storico in cui l’eroina bombardava di tossicodipendenti fino al midollo anche nel resto del mondo.
Sostituire l’eroina con la “dipendenza da sangue” e “dipendenza da morsi sul collo” fa emergere la percezione del dolore per mezzo dei personaggi Katy e Paine.
Abel Ferrara mette in scena un film cupissimo e pessimista, scegliendo di girare in bianco e nero e utilizzare la dimensione di immagini vicina a 4:3.
I grigi sono spenti, il bianco acceso, il nero non così profondo.
Inoltre, si ha la sensazione di una comunicazione emotiva tra il regista e Katy, come volesse supportarla.
Perchè The Addiction è completamente privo di chissà quale impronta moralista, degli emisferi del giusto e sbagliato.
E’ quella forma infernale – sulla Terra – che può prendere possesso di chiunque, nascondendolo dai propri “ausculti” del proprio male.

Abel Ferrara, con il suo The Addiction, gira un film estremamente fuori dal coro.
Lo stile appare “povero”, a volte vivare al semidocumentario, sostenuto da una fotografia con contrasti di chiaro e scuro.
Tale stile permette di prendere e percepire tutto sui caratteristi, in particolare Katy.
Lo schermo in 4:3 fornisce un colpo sia nell’utilizzo della luce sia nella narrazione stessa.
In una porzione così abbastanza ristretta i personaggi appaiono come “incastrati” in un luogo fluttuante, comunicano più chiaramente il cappio-gabbia della tossicomania.
La pellicola è stata nominata per l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 1995 ed ha vinto il premio per la critica al Mystfest nello stesso anno.