brevi recensioni - cinema

“La donna mancina”, di Peter Handke

Peter Handke

"La donna mancina" (1978)

Restaurato in digitale dalla Wim Wenders Stiftung, è il primo lungometraggio dello scrittore Peter Handke, tratto dal suo romanzo omonimo la donna mancina (Die linkshändige Frau), del 1976.
Con Bruno Ganz – reduce dal bellissimo La marchesa von… di Eric Rohmer del 1976 –
e Edith Clever

Parigi.
Marzo, Aprile.

Marianne e Bruno si ritrovano a Parigi.
Lui rientra da un viaggio di lavoro in Finlandia.
Dopo una cena al ristorante, dormono in una camera d’albergo.
La mattina dopo Marianne dice di avere avuto un’illuminazione durante la notte che la spinge ad obbligare il marito ad andarsene, lasciarla da sola con il figlio Stefan.
Lui accetta non senza discussioni, dicendo alla moglie, con freddo sarcasmo, di non cominciare a bere o addirittura impiccarsi.
Comincia così una “nuova” vita per Marianne.
Rifiuta i corteggiamenti di un vecchio amico e collega di lavoro che è a capo di una casa editrice.
Ricomincia a lavorare, traducendo Flaubert; vaga per la casa, semivuota ed elegante; fa passeggiate da sola o con il figlio; rifiuta la compagnia di un’amica.
Qualche volta si rivede con Bruno ma sono incontri fugaci dove lei non parla e lui spera almeno in un rapporto epistolare con il figlio Stefan.
Va al cinema – dove si addormenta guardando un film giapponese muto – e incontra suo padre, solo e anziano scrittore che ha fatto la guerra e che non scrive più “perché non ha nessuno a cui pensare”.

- Nel Film

All’inizio del ‘900, si riconosceva  un’associazione tra chi era mancino e la demenza o la dislessia.
Chi era mancino era mancante della parte destra, era privo di razionalità e aggancio con la realtà.
Marianne è la donna mancina ma nel senso di stramba e maldestra, che si priva dell’ancoraggio alla parte destra che è l’uomo, che sfugge un passato per recuperare un presente che è vuoto.
Travolta dalla sua stessa scelta di solitudine, Marianne inizia un calvario di vita che altro non è che la sua rinascita – riprende il lavoro, va al cinema, gira per casa con un vestito elegante, grigio, da sera, passeggia con il figlio tra i boschi autunnali, accetta di non parlare se non quando ripete le sue traduzioni o risponde al figlio.
Fino ad arrivare alla primavera parigina, dove accetta di invitare a casa amici in quella che è una festa fatta di scacchi e poche parole da parte di tutti.

Peter Handke dirige la sua prima opera tratta dal suo stesso omonimo romanzo La donna mancina
La fotografia è qualcosa di spettacolare, di una luce naturale dove i colori si mischiano e non prevalgono uno sull’altro.
Il sottofondo musicale ridotto al minimo – qualche accenno a un preludio di Bach eseguito al violoncello e una Per Elisa al pianoforte – perché sostituito da un sottofondo di immagini – bar desolati, alberi, il fuoco del camino, gasometri, cartelli di vie stradali.
E, in maggior risalto, un riproporre numeroso di treni che passano e lasciano il vuoto, tra le stazioni vuote.
Spesso alternato alla staticità della casa dove vive Marianne.
Probabilmente un’allegoria delle tante vite che vanno, o meglio, sfuggono.
Oppure una dichiarazione delle vite che si possono riproporre, che passano e lasciano traccia di rinascita.
“La donna mancina” è un film dove non succede nulla, a narrare è la realtà ripresa.
Una natura morta – come la “narrativa morta” di Handke – che rifiuta un racconto, da rendersi così molto debitore del regista e amico Wim Wenders – del Nuovo Cinema Tedesco  e del primo Wenders di Alice nelle città o ancora meglio Falso Movimento.
Da ammirare la scena in cui il padre di Marianne esorta un attore disoccupato a non tenere tutto dentro, a urlare quella che ha dentro altrimenti farebbe solo un teatro di posa.

Epilogo
Lo sfondo è una stazione ferroviaria. Mentre appare la gente scesa dal treno le parole di chiusura di Handke: Non vi siete accorti che c’è posto solo per chi reca il proprio posto per sé…”

One Comment

  • Francesco

    Ciao , ho visto ieri il film in un cinema della mia città in cui veniva proiettato gratis e inquadrato nella lotta per i diritti della donna in una Germania degli anni 70 che è in questo periodo è in modesto rinnovamento; ho apprezzato l ironia del film di apostrofare già dal titolo la protagonista con l’appellativo “mancina”, quindi rimandando a una serie di concetti negativi (disabilità, stupidità, incapacità e a volte perfino vicinanza al demonio), e metterla Sin dall inizio come motore attivo della trama con la sua illuminazione di allontanare il marito e iniziare una nuova vita di solitudine secondo la sua volontà. Nello svolgimento il film confonde un po’ lo spettatore, perché la protagonista dopo aver manifestato la sua voglia lontananza dal marito senza addurre nessuna motivazione specifica inizia una vita vuota, a tratti esasperante e noiosa, quindi saremmo portati a credere che la donna è davvero “mancina”, ossia in questo caso inconsapevole delle scelte che prende, leggerà nella decisione di prendersi la totale responsabilità del figlio e via dicendo; in questa nuova vita, tutta via, riprende il suo lavoro di traduttrice, passeggia nelle campagne e vive una profonda connessione col figlio, dunque sarebbe mancina solo perché rifiuta di avere alla sua destra un uomo ma sceglie la “folle” libertà, difficile e pesante da caricare sulle spalle ma necessaria in quanto diritto inalienabile. Sull’impossibilità di maneggiare la propria libertà potremmo parlare per ore, da Platone a Dostoevskij, ma vorrei ancora fare qualche osservazione sul film; i tre personaggi principali sono persone che, per un motivo o per l altro sono costretti a fronteggiare la solitudine e ognuno la gestisce a modo suo, il marito la odia, è felicissimo di essere tornato da sua moglie e si scontrano la sua gaiezza quasi infantile e invece la glaciale freddezza della moglie, il padre se n’è invece fatto divorare, scrittore stato anche lui in guerra passa la vita da solo e non scrive più perché, come dice lui non si può scrivere di niente se non hai nessuno con cui ragionare, e infine la nostra protagonista, che a differenza degli altri due va incontro alla solitudine di sua spontanea volontà, al contrario di quelli. Forse è proprio qui che riscontriamo meglio che ovunque la suddetta “mancinezza” della donna, nell incomprensibilità del suo gesto criticato da tutti, mentre il farsi carico della propria libertà è da sempre un diritto di chiunque, per quanto la maggior parte lo temano e lo rifuggano, perciò il gesto della protagonista è in realtà profondamente coraggioso, una sorta di salto nel vuoto a scoprire se stessi e i limiti della cosiddetta libertà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.