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Post Mortem (2010), di Pablo Larraìn

Post Mortem

Santiago, Cile, 1973

In Post Mortem, Mario lavora come funzionario in un obitorio.
Trascrive le autopsie dettate dal medico forense.
La sua vita è smossa per i sentimenti d’amore che inizia a provare per una ballerina, Nancy.
Fra finestre, sedie, tegami, tegamini, vicoli anonimi, Mario diventa un oggetto anche lui, rappresenta la maggioranza che vive e si muove solo a comando del dittatore.
Un morto vivente che si muove solo per descrivere la morte altrui.
L’amore squallido per Nancy non servirà a cambiarlo, mentre ogni coscienza viene massacrata dall’esercito e i corpi portati riempiono la clinica di Mario, sempre pronto a dattilografare.

Con Post Mortem, Larraìn si avvicina di più al Cile degli anni Settanta, questa volta lo tocca con mano.
Film agghiacciante e di ghiaccio, bellissimo.
Larraìn cerca di stare a una distanza buona dai suoi personaggi da permettergli, comunque, di non farsi sfuggire niente.
Il regista segue nei dettagli la vita di Mario, con la stessa precisione del bisturi o delle diagnosi di morte.
La repressione è alle porte, Pinochet è al potere e la Junta Militar non aspetta a distruggere i dissidenti politici.
Ma nessuno, di fronte le proprie responsabilità verso l’orrore del regime, si muove.
Da questa immobilità nasce il cadavere di Mario, un funzionario che non sa usare la macchina da scrivere elettrica, che arriva ad aiutare Nancy a nascondersi per non essere presa dalla polizia, che non capisce dove sia il bene e il male, che sorride ai colonnelli del Presidente.
In Post Mortem esistono due condizioni, quella di orrore e quella di squallore ma che l’una vive dell’ossigeno dell’altra.
E’ un orrore che sta sotto terra e che si slancia all’aria aperta perché troppo putrido da restare nascosto.

Post Mortem è un film duro, durissimo, senza vie di uscita. Girato con maestria assoluta, scarno e quasi senza musiche, Pabo Larraìn ha le idee chiare.
E ancora una volta ci mette di fronte alla assoluta mancanza della coscienza del protagonista, squallido come i suoi pensieri.
Larraìn registra le azioni del personaggio Mario come fosse una marionetta, un uomo di plastica che decide di affogare quel che resta della sua coscienza nella terribile, agghiacciante scena finale del nascondiglio.
Impressionante la scena della clinica in cui viene portato il cadavere di Allende, mentre tutti i generali sono attenti ad ascoltare la diagnosi medica perché sia definitivo il motivo del decesso: suicidio.
Nemmeno di fronte la carcassa dell’ex capo del governo, il marxista Salvador Allende, è possibile aprire una breccia nel cuore di Mario, che si limita a battere i polpastrelli sui tasti neri e a cucinarsi uova in un tegamino semirotondo.

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