brevi recensioni - cinema

Un mondo di marionette (1980), di Ingmar Bergman

Valutazione della redazione

Unico
10/10

Un mondo di marionette, film suddiviso in “capitoli” didascalici, dallo stesso Bergman definiti brechtiani.
Un mondo di marionette si basa su una trama costruita in flashback e flashforward costanti.
Il punto nevralgico è l’omicidio di una prostituta commesso da Peter – sequenza che avviene all’inizio a colori per poi passare al resto del film in bianco/nero -, Bergman “salta” avanti e indietro rispetto questo accadimento.
Da questo atto estremo si estendono i rami della trama, il rapporto con la moglie Katarina, il rapporto con il dottore psichiatra Mogens Jensen.
I rapporti umani si intrecciano e svelano le loro luci coloratissime, lunari e spente mentre la polizia indaga.

I temi messi in gioco da Bergman sono molti, sintetizzati in due sfere principali: quella della relazione sociale e quella della relazione con la propria interiorità.
Verso queste sfere Bergman si tiene distante, ne riprende la precarietà e la violenza.
Per avvicinarsi alle sue marionette, usa il “filtro” della psicoanalisi che sonda la dimensione fondamentale dei sogni e della solitudine.

I rapporti umani, relazionali sono descritti come trampolini per slanciarsi verso una certa, propria personale distruzione.
La vita di coppia è più contrasto che godimento d’amore.

L’amore viene vissuta come uno spazio da interpretare più che da vivere di slancio.
La fisicità dell’amore, la sessualità, non è tanto una parte di se stessi quanto più un errore e fonte di aggressività nell’altro da sé.
Così si innescano nodi di rapporti sentimentali con anomalie, tra Katarina e il medico Jensen che allo stesso tempo sono moglie e dottore di Peter.

Da questi processi nasce in sordina la solitudine dell’uomo, una sorta di collisione tra vita di coppia e vita interiore dei protagonisti.
La solitudine dell’uomo in quanto composta da fantasie e desideri unici, pulsioni traducibili solo nella propria sfera interiore, quella sfera “finale” risultante da tutti i movimenti del mondo.

Un mondo di marionette vira verso la psicoanalisi e il sogno, quasi obbligatoriamente, per verificare la sfera della propria interiorità.
Perchè per Bergman, è nel sogno che si svolge la vita.
Una vita che richiama a sé la morte, intrecciate.
E nel sogno si svolge il dolore, il disagio, la voglia angosciata di morire, la voglia di vivere.
Nel sogno si svolge l’amore, il sesso.
Perchè nel sogno non vi è richiesta di spiegazione dei propri spettri.
Nel sogno non c’è gravità, non c’è buio ma solo una luce bianca quasi accecante.
E nudità dei corpi, nessun abito indossato.

Un mondo di marionette ha dentro di sé il filtro della psicoanalisi e lo usa quando il sogno è necessario.
Da qui la straordinaria sequenza della lettera – mai spedita – di Peter al proprio dottore – in questo momento si sente la prima musica, un accenno, dato che il film è praticamente tutto dialogato –
Bergman non si limita alla voce fuori campo che “recita” le parole dello stesso Peter.
Mette fisicamente in scena la lettera tramite la descrizione di un sogno di Peter.
E Peter sogna di sognare, sogna di svegliarsi, sogna di sognare movimenti.
Una “parte” della sua sofferenza – già un po’ spiegata al medico nelle prime battute del film – , del suo disagio, della sua inquietudine si avvera nel sogno per poi sfaldarsi subito dopo, cosciente nel sogno di sognare.

Forse le marionette sono mosse da Dio, forse dal mondo, forse da un destino obliquo.
Bergman mostra un possibile destino come una categoria dell’uomo che è già completata prima ancora di nascere.
Un destino di domande, forse.
Di quesiti che i suoi personaggi si pongono senza trovare il ristoro di una risposta.
La mancanza di risposte complete ai quesiti del mistero della vita compone il destino.
Le marionette hanno fili intricati per i quali si muovono, per i quali quindi vivono.
La marionetta ha movimento solo se è mossa.
Sta nel suo movimento la precarietà della sua realtà.
La realtà risiede “dietro” la marionetta, ovvero nella sua immobilità.

Il suo “falso movimento” è generatore di quella che l’uomo chiama vita.

Ma Bergman, con Un mondo di marionette, vuole parlare anche della maschera dell’uomo, che oltre a essere marionetta si nasconde.
Nel film , è proprio la madre di Peter a citare per prima il senso di indossare una maschera.
Tutti indossano una maschera, sia nella sfera relazionale sia in quella della interiorità.
Oltre a un movimento dato da oscure forze, le marionette evidenziano il fatto di essere finte e di avere qualcosa di “nascosto dietro”.
Qui si può scovare un velato attacco alla classe borghese da parte di Bergman.
Personaggi che vivono in uno strato sociale fintamente rialzato da terra, corrotto da maschere e aggressività.
L’attacco viene dalle parole del dottor Jensen, nel finale, dove legge ad alta voce la diagnosi psichiatrica fatta a Peter che è rinchiuso in clinica dopo aver commesso l’omicidio.
La diagnosi del medico rivela e sottolinea la posizione sociale di Peter “che strozza gli istinti.
Ecco, la debolezza e falsità della classe borghese agiata.
E la sua violenza :”Solo colui che si uccide possiede completamente se stesso, solo colui che uccide domina completamente” continua la diagnosi del dottor Jensen.

Un mondo di marionette è un capolavoro forse un po’ in ombra.
Ma accecante nella sua messa in scena perfetta, nella potenza degli attori.
Accecante è il bianco nell’uso della luce, un bianco che domina negli spazi onirici mentre il grigio e le ombre dominano il resto.
Contrasti quindi fortissimi tra il bianco e il nero sottolineati in modo prepotente.
Un mondo di marionette è quasi un miracolo, in virtù soprattutto della sua uscita (1980), dove la cinematografia spaziava in altri, diversissimi drammi.
Film profondissimo, inquietante e a volte graffiante in modo felino, nelle sue varie parti – “Non ti preoccupare! Siamo fenomenali ad annullare la personalità altrui” dice lo psichiatra Jensen.

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