brevi recensioni - cinema

Oh Boy – Un caffè a Berlino (2012) di Jan Ole Gerster

Voto: 8

Niko vaga in una Berlino rarefatta.
Senza prospettive per il giorno dopo e sradicato dal suo passato nella misura in cui non riesce a creargli dolore.
Oh Boy è un film crepuscolare, un gioiello semplice.
Girato in bianco e nero per diffondere uno stato d’animo sommesso, Oh boy si carica di leggera malinconia, non privo allo stesso tempo di momenti ironici.

Niko è un ragazzo che ha lasciato gli studi e da due anni vive “pensando a sé stesso”.
Vaga per Berlino facendo diversi incontri e cercando di bere un caffè senza riuscirci mai.

Oh Boy di Jan Ole Gerster è una piccola e affascinante dedica di amore a quella solitudine “leggera” alla quale Niko – Tom Schilling – non oppone resistenza né sfugge.
Il suo è un sentire e un osservare.
La sua voglia di risposte a quella vita che ha dentro la rimanda al giorno successivo.
Nel presente, ha Matze come amico e un padre ricco che incontra in un campo di golf.
Insieme arrivano tardi a uno spettacolo teatrale off ma nemmeno questa forma libera di espressione riesce a fare breccia in Niko che si limita ad osservare non senza interrogativi.

L’incontro con Friedrich è forse l’unico che smuove la sensibilità di Niko.
In un bar notturno – dove è già troppo tardi per avere un caffè – Friedrich riconosce l’insoddisfazione di Niko. Inizia a raccontargli dei tempi di Hitler, quando lui era appena un bambino.
Niko e Friedrich rappresentano due solitudini simili ma scandite in generazioni diverse.
Niko percepisce quella di Friedrich ma è rappresentata da un linguaggio sconosciuto e che porta incomunicabilità.
L’incontro tra i due finisce in una corsia di ospedale dove, a notte fonda, il protagonista scopre il nome dell’anziano personaggio da una infermiera – nell’incontro al bar notturno, Friedrich non si presenta e non dice il suo nome.

In Oh Boy, Niko è un Holden senza rabbia.
Di più, Niko è un Petr di Asso di picche.
Un Petr fuori dagli anni ’60 nella Cecoslovacchia e immerso in una città ricca e stratificata come la Berlino moderna.
Un Petr attuale, ricco di silenzio emotivo e che sfugge – a differenza del personaggio di Milos Forman – all’amore come sentimento e atto sessuale per poi dimostrarsi più permeabile dai richiami della morte.

C’è lo scorrere, nel finale, di inquadrature fisse su diverse zone della città mentre comincia ad albeggiare.
Palazzi con poche finestra illuminate, un incrocio di due vie solcate dal passaggio del tram, periferie con muri colorati.
Le immagini descrivono solo gli ambienti e le loro cose. Non ci sono persone.
Niko, rientrato nel suo appartamento, fuma alla finestra.
Si può immaginare come questi luoghi gli appartengano.
Fanno parte di lui ma lì, in quegli spazi, non c’è nessuno.

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